Donne,
un
secolo di storia
A cura di Dani Noris
Il contributo della storica Yvonne Pesenti per capire il lungo processo dell'emancipazione
femminile e della conquista del diritto al lavoro
D: La donna che decide di lavorare, che ha una famiglia a carico, che ha
dei figli, come ha vissuto durante la storia e come vive adesso questo rapporto
nei due ambiti?
R: Per quanto riguarda il lavoro femminile, la situazione
attuale è per molti aspetti diversa da quella di epoche precedenti; la
condizione della donna, e quindi di riflesso della donna inserita nel processo
lavorativo, è infatti radicalmente cambiata a partire dagli anni '70.
Nei decenni precedenti, e cioè nel lungo periodo che va dalla fine dell'Ottocento
fino alla seconda guerra mondiale e comunque fino agli anni '60, il ruolo del
lavoro professionale o comunque extra-domestico nel contesto di vita delle donne
era diverso, come diversamente era valutata la presenza femminile nel mondo
lavorativo . Fino a qualche decennio fa, il lavoro non era un elemento fondante
dell'identità femminile, non era insomma un elemento centrale nell'esistenza
di una donna - e questo valeva anche per le donne che avevano una formazione
o avevano appreso una professione. Le biografie e i percorsi femminili erano
abbastanza strutturati e in un certo senso piuttosto omogenei. C'era la fase
di apprendimento di una professione (in molti casi la formazione professionale
non era ritenuta necessaria, o era considerata un inutile dispendio di mezzi,
trattandosi di una donna, proprio perché, in quanto tale, non sarebbe
stata chiamata a mantenere una famiglia). Le donne delle classi meno abbienti
lavoravano fuori casa per necessità, mentre le donne delle classi superiori
o della classe media abbandonavano l'attività professionale al momento
del matrimonio, o al più tardi alla nascita del primo figlio. Ricordo
a questo proposito che negli anni '30 le maestre delle scuole elementari non
potevano più insegnare se sposate: si riteneva infatti che una maestra
coniugata costituisse un elemento di concorrenza sleale nei confronti dei colleghi
maschi! E' una curiosità della quale magari non ci si ricorda (il divieto
di insegnare dopo il matrimonio è stato tolto solo negli anni '60), ma
che indica bene che collocazione avessero il lavoro femminile e la professione
in una biografia femminile. Le donne che si dedicavano alle professioni che
richiedevano una formazione o un'istruzione maggiore, e penso alle prime donne
avvocato o architetto, di solito, a parte alcune eccezioni, optavano per il
nubilato. La donna sceglieva (o era costretta a scegliere, come nel caso delle
insegnanti) fra la professione e la famiglia. Le donne delle classi povere molto
spesso, le operaie di fabbrica per fare un esempio, erano invece costrette a
lavorare per motivi economici; però questo veniva vissuto come dalla
società e dalla donna stessa come una situazione contraria alla vera
natura femminile, non idonea, negativa, alla quale bisognava porre rimedio.
L'abbandono dell'attività professionale era perciò considerato
in modo positivo, alla stregua di un miglioramento.
A partire dagli anni '70-'80,
il ruolo femminile è, come si sa, radicalmente cambiato. È aumentato
enormemente l'accesso all'istruzione per le donne, la formazione professionale
è diventata un valore, il matrimonio ha cessato di essere l'unico o il
massimo traguardo per una persona di sesso femminile. A questo punto però,
e lo si può constatare ancora adesso, è esplosa una grande contraddizione.
Infatti oggi le donne attribuiscono alla professione il valore e la considerazione
che merita: il lavoro professionale è diventato centrale, permette lo
sviluppo della personalità, permette di avere anche una vita autonoma,
di non dipendere finanziariamente dal partner. Tuttavia, e da qui la contraddizione,
non è cambiata, nonostante questi grandissimi e profondi mutamenti degli
ultimi 15-20 anni, la distribuzione o ridistribuzione tra i due sessi del lavoro
non retribuito, vale a dire il lavoro di cura.
Il lavoro di cura è una definizione, una specie di metaconcetto che attraversa
tutta l'esistenza femminile. Cosa si intende per "lavoro di cura"?
Significa prendersi cura del marito, cucinare, avere la responsabilità
della conduzione del ménage famigliare e dei lavori domestici, rappresentare
la casa e la famiglia verso l'esterno. Significa partorire i figli, accudirli,
educarli e infine, quando il lavoro di cura diminuisce perché i figli
sono cresciuti, doversi assumere la responsabilità della cura degli anziani.
L'attribuzione di tutto questo settore, di questa immensa mole di lavoro non
retribuito, indispensabile alla famigli e alla società, continua a costituire
un grosso problema, che ancora non è stato risolto, nel senso che non
c'è stata una ridistribuzione equa o una ripartizione equa di questi
compiti. Quando entrambi i coniugi o entrambi i genitori in una famiglia lavorano,
il lavoro di cura è una cosa che viene tradizionalmente attribuito alle
donne, addirittura le donne se lo autoattribuiscono, perché il lavoro
di cura fa parte di quello che si considera l'essenza della natura femminile.
Si arriva così quasi sempre al dilemma della cosiddetta doppia presenza,
che è fonte di uno stress notevolissimo, non solo psichico, ma anche
per quel che riguarda il carico di lavoro. Anche nei casi un cui il lavoro materiale
viene risolto con degli aiuti, poco o nulla è risolto sul piano psicologico,
perché una donna che ha dei figli, generalmente, si sente responsabile
della cura e dell'educazione di questi figli. Perciò generalmente le
donne si trovano confrontate di continuo con decisioni molto laceranti, sia
per quanto concerne la dimensione orizzontale, vale a dire nell'impostazione
delle giornate ("cosa posso o devo privilegiare oggi, l'impegno sul lavoro
o la malattia del bimbo, che tanto mi preoccupa? o la visita all'anziano genitore?).
E poi soprattutto per quanto riguarda la dimensione verticale, cioè nell'impostazione
della biografia, cioè delle cosiddette scelte di vita.
Ogni donna si pone presto o tardi domande del tipo: imparo una professione,
seguo una formazione che mi costa un grande impegno, ma ne vale veramente la
pena? La esercito, questa professione, e se sì, con quali modalità?
Scelgo il part-time, con tutti gli svantaggi dal punto di vista della professione
che questo tipo di impiego di solito comporta (vale a dire: poche prospettive
di carriera, minor retribuzione)? E così via. Ragion per cui fintanto
che non si risolve questa contraddizione, io mi sentirei di dire che il campo
delle professioni, nonostante gli enormi progressi e nonostante oggi si possa
andare fieri di progressi molto clamorosi e che fanno sensazione (come ad esempio
il fatto che un grosso TIR possa essere ormai guidato anche da una gentile signora,
o il fatto che vi sia già stata più di una donna tra gli astronauti
che sono andati nello spazio), la questione del lavoro di cura non è
affatto stata risolta. Per quanto possa sembrare paradossale, il mondo del lavoro
è proprio quello in cui la parità è più lontana.
Non è così lontana in campo politico, non lo è in campo
giuridico; in tutti questi ambiti si possono trovare, e in parte si sono già
trovate, soluzioni favorevoli, grazie a degli atteggiamenti giusti da parte
della comunità, dell'autorità, del legislatore. In campo professionale
invece, nonostante le buone intenzioni, se non si risolve questa insanabile
contraddizione, che in ultima analisi è strettamente legata alla biologia
della donna, o comunque a quella che si considera la vera natura femminile,
bisogna purtroppo ammettere che la parità è ancora lontana.
Anche la donna che ha ben in chiaro che percorso professionale scegliere, che
sa per quali obiettivi lavorativi o di carriera impegnarsi, dal momento che
diventa madre si troverà confrontata con questo problema, di non facile
soluzione: come conciliare due mondi tanto diversi? E la nascita di un figlio,
la maternità è secondo me un avvenimento talmente diverso da tutti
gli altri, talmente poco paragonabile a tutto il resto, che questa contraddizione
si pone alla stragrande maggioranza delle donne, anche a quelle più determinate.
E si tratta di una contraddizione per sua natura insanabile.
Infatti: come può una donna a scegliere tra un lavoro che l'appassiona,
che le permette di realizzarsi e un bambino che le è affidato e del quale
è madre? Per cui è veramente necessario che di questo elemento,
veramente centrale, si tenga conto, cercando di trovare strade e soluzioni praticabile
e accettabili. Infatti indietro non si torna. Chi fa un lavoro e si impegna
per questo lavoro, sa che grande valore ha essere indipendenti finanziariamente,
realizzarsi in una professione, assumere un compito importante, che ci permette
di contare e di partecipare sul piano sociale. E, d'altro canto, chi è
madre sa cosa voglia dire, quanto sia straordinaria, per quanto banalissima,
la maternità. Sulla terra ci sono sei miliardi di esseri umani ormai.
E quindi non è una cosa eccezionale la maternità, tutti siamo
venuti al mondo allo stesso modo. Ma questo secondo me non conta: la maternità
resta una cosa bellissima, incredibile, misteriosa. E importantissima. E soprattutto
molto impegnativa.
La contraddizione che si crea tra lavoro di cura e presenza nel mondo del lavoro
non si può risolvere a livello individuale, con la buona volontà,
l'impegno personale o soluzioni più o meno geniali. Bisognerebbe veramente
parlare non solo di ridefinizione di ruoli in termini teorici, non solo di buona
volontà dei partner, di mariti più gentili o più comprensivi;
tutto ciò non è sufficiente. Occorrerebbe secondo me ripensare
l'impostazione del mondo del lavoro, senza dimenticare che il lavoro casalingo
non retribuito e la cura delle persone sono fondamentali per il funzionamento
della società. E quindi, in primo luogo, smettere di considerare lavoro
vero solo quello retribuito. Nella maggioranza dei paesi occidentali altamente
industrializzati, il desiderio di maternità, e quindi la natalità,
sono ovunque in costante regresso, ma vi sono differenze sostanziali: un paese
come l'Italia, paese latino e cattolico, ha un tasso di natalità bassissimo,
mentre invece nei paesi scandinavi la media è di due-tre figli per ogni
donna. Questi dati mi portano a supporre che il ruolo e l'atteggiamento dello
Stato e della società possono essere determinanti. Se la società
e l'ente statale, che è la sua emanazione politica e istituzionale, riflette
seriamente su quello che significano in concreto la maternità e la gestione
di una famiglia e, d'altro canto questa stessa società crede seriamente
che anche alle donne debba essere la possibilità di esercitare una professione,
nonostante il loro ruolo familiare, allora vi sono le basi per cercare delle
soluzioni non più individuali ma collettive - come ad esempio congedi
maternità estendibili anche ai padri, o disposizioni attuabili all'interno
delle aziende e volte a favorire le dipendenti che hanno dei figli (o che comunque
almeno evitino di penalizzare eccessivamente, come avviene invece da noi, le
donne che interrompono l'attività lavorativa a causa della maternità!).
Qualcosa si può fare se si pensa in concreto in questa direzione, e quanto
avviene nei paesi scandinavi sembra dimostrare che sia possibile.
Ma la conditio sine qua non per la soluzione di questo problema che sembra davvero
irrisolvibile è che si rivaluti il lavoro di cura, che riconosca che
il lavoro di cura è indispensabile a ogni società umana. E che
perciò si pensi a questo compito come a qualcosa che riveste un valore
altissimo, per ogni singolo individuo e per la società nel suo insieme.
Solo con un approccio di questo tipo si potranno individuare soluzioni adeguate
e dignitose.